giovedì 8 maggio 2014

LA GIOVENTU' E I SUOI MITI



DI UMBERTO GALIMBERTI -  Da: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/06/02/la-gioventu-suoi-miti.html

Maurizio Stefano Mancuso, che insegna Organizzazione e mercati presso la facoltà di Sociologia dell' Università Cattolica di Milano, ha scritto un libro sui giovani finalmente e decisamente nuovo, che si scosta senza esitazioni da tutti gli studi che le scienze umane hanno dedicato al mondo giovanile senza coglierne la simbolica che lo promuove, nonostante la letteratura, la filosofia, il cinema, la pubblicità non hanno mai smesso di segnalarla. Questa simbolica ha un nome: «il mito della giovinezza» di cui forse abbiamo privato i nostri giovani, spuntando quelle che il Salmo 127 definisce «frecce»: «Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza». Le frecce dell' eroe. Le figure mitiche della giovinezza da Dioniso alla pubblicità dei jeans (Franco Angeli, pagg. 176 euro 15) rifiuta lo sguardo psicologico che considera la giovinezza come un' età di mezzo in cui non si è più bambini e non si è ancora adulti, e perciò età faticosa, difficile, fonte di sofferenze e di ansie, età di transito, età inadeguata. Il libro rifiuta anche lo sguardo sociologico che punta gli occhi sulla devianza (i drogati, i violenti), versione scientifica delle ansie genitoriali che si nutrono di timore verso il futuro, senza neppure il sospetto che la devianza forse altro non è che la frustrazione del mito della giovinezza. E' come se lo sguardo senile della cultura occidentale non avesse più occhi per la condizione giovanile che potrebbe rinnovarla, e perciò la lascia ai margini del proprio incedere, parcheggiata in spazi vuoti e privi di prospettive, senza farsi sfiorare dal dubbio che forse il sintomo della fine di una civiltà non è da addebitare tanto all'inarrestabilità dei processi migratori o ai gesti disperati dei terroristi, ma al non aver dato senso e identità e quindi aver sprecato le proprie giovani generazioni, la massima forza biologica e ideativa di cui una società dispone. Il mito della giovinezza, forse più noto ai ricercatori di mercato che ai sociologi, agli psicologi, agli educatori e agli stessi genitori, deve essere riconosciuto e riconsegnato ai giovani, che lo vivono comunque, ma un po' alla cieca, perché è stato loro sottratta la mappa che Mancuso prova a rintracciare, ricomponendo i pezzi, spesso incodificabili, dei comportamenti giovanili. Innanzitutto è l' «espansività». Già gli antichi greci avvertivano che la vita non è eterna, ma breve, e, proprio perché breve, va vissuta in tutta la sua espansività. Espansività vuol dire «pienezza», quella pienezza cantata da Africa United: «ci sono notti che le labbra bruciano nel sale, quelle notti da farci l' amore fin quando fa male». Espansività vuol dire «potenza» che si esprime nello spirito animale del giovane che sfida romanticamente gli elementi, puro tuffo nella vita che osa la temerarietà. Espansività vuol dire «accelerazione della vita» che detesta la ripetizione e giunge a stressare l' esperienza, fino al «dis-astro» che, come ci ricorda G. Steiner: «è una pioggia di stelle sull' umanità». E poi «coralità giovanile» ben espressa da quella canzone dei Beatles: «Io sono lui, come tu sei lui, come tu sei me e noi siamo tutti assieme». Sensazione di appartenere a una comunità nascente, sentimento di nascere insieme al mondo, di essere tra giovani prima ancora che nel mondo. Stupore incantato del riconoscimento, da cui nasce la propria identità, non attraverso un processo di interiorizzazione, ma come dice il poeta spagnolo V. Alexandre: «attraverso quel palpito che muove migliaia di cuori che fanno un unico cuore», per intonare, direbbe Apollinaire: «il canto di tutto l' amore del mondo». All' area mitica della giovinezza, oltre all' espansione per cui scrive Nietzsche: «il giovane viene spinto selvaggiamente nell' esistenza», in quella bella continuità di speranze che, al dire di Conrad: «non conosce pause né introspezioni», appartiene anche la «figura dell' assenza» che non è mancanza, ma tensione esplorativa, dinamica, immaginativa, fantastica. Se l' espansività è l' adesione incondizionata alla pienezza della vita, la sensazione che il reale, come dice Musil: «non esaurisce tutto il possibile», spinge i giovani verso quegli universi alternativi alla realtà, perché, prima di essere reale, la vita deve essere fantasticata. E' la forma della passione che, diceva Stendhal: «Non è cieca, ma visionaria» e perciò «prende il vento dell' eventuale» (Breton), «come il mare che è sempre qualcosa che ricomincia» (Sartre), perché ogni giovane, come il Tonio Kroeger di Thomas Mann: «è portato per mille modi d' esistenza». La passione per l' assenza inventa il «gioco» come quel muoversi di qua e di là per non farsi risucchiare dalla monotona ripetizione del reale, inventa l' «utopia» per creare spazio a un' idea e, con la luce dell' ideale, illuminare lo spessore opaco del reale. L' utopia giovanile non è una fuga nel sogno e neppure, all'altro estremo, una densa consistenza ideologica, ma un pensare col cuore, immettere nel pensiero una corrente di calore, perché, ce lo ricorda Dostoevskij, nel giovane «la logica è sempre fusa a un violento sentimento che si impadronisce di tutto l' essere» e porta a «scardinare la mediocrità della vita di tutti i giorni e andare a far volare l' aquilone nel prato» (E. Brizzi). L' utopia scrive J. Beck «invoca l' immaginazione come soluzione». E poi il «viaggio» che per Elias Canetti è la metafora del «desiderio giovanile di varcare ogni confine». «Dove andiamo - si legge in Kerouac - Non lo so, ma dobbiamo andare». «Anche dall' altra parte della vita» scrive Celin, come i bambini che, per scoprire, guardano gli oggetti che ricevono in regalo anche da dietro, anche dall' altra parte. Viaggiando, magari o soprattutto senza una meta, per il giovane vuol dire assorbire visi, parole, moltitudini, inghiottire l' universo per non morire di fame. E poi, a fianco dell' utopia, la «sfida» per mettersi alla prova, per far nuovi tentativi, per commentare, lanciando una sfida, il mondo che stanno ereditando, prima che siano date le consegne. In ogni sfida giovanile c'è sempre un gesto ulteriore, una sorta di escursionismo simbolico in cui traluce il desiderio di annaspare per qualcosa di diverso, qualcosa di meglio rispetto a quello che si è in procinto di ricevere. «Un abisso a mia disposizione? Grazie per l' occasione» scrive Paul Claudel. E oltre la pienezza espansiva e l'assenza che promuove la ricerca, al mito della giovinezza appartiene la «trasformazione», la missione creativa del cambiamento che Paul Valery descrive come un «andare senza dèi verso la divinità». E' nella trasformazione che il giovane valorizza i suoi maestri, semmai ne ha avuti, perché il passato è l'abbrivio del futuro. In mezzo c'è la figura della «riappropriazione» di quanto, nello slancio della vita, si è depositato nel sottosuolo dell'anima, ma non si è estinto. La riappropriazione giovanile non è senza «ribaltamento». «Mi avete fregato di nuovo» si legge nella lettera a una professoressa della scuola di Barbiana. «Ma io sarò maestro e farò scuola meglio di voi». Il ribaltamento non è di soluzione pantoclastica, non è azzeramento ma, come dice il giovane protagonista di Padri e figli, è «sgombrare lo spazio», rifiutare «i sorrisi col cuore piegato» (G. Corso), la morale quietista che «insegna alla gente ad accettare le calamità della vita» come si dice nel film Mosquito Coast. Il ribaltamento allude alla ricostruzione, che non consiste nel far vincere il contrario di ciò che è stato, perché, come ci ricorda Breton: «attaccare la morale è un altro modo di renderle omaggio», ma consiste nel prendere consapevolezza che, come scrive Benjamin: «ogni giorno noi usiamo forze immense, come i dormienti. Ciò che noi facciamo e pensiamo è colmo dell'essere dei padri e degli avi». Dopo l'irruenza espansiva, dopo il vagabondare nell'assenza, dopo la passione che trasforma, i giovani prendono a scrutare nel proprio cuore e si svelano a se stessi. La «rivelazione» di sé a sé che accompagna l' individuazione è l'ultima costellazione del mito della giovinezza quando, come scrive W. B. Yeats: «si scruta dentro il cuore perché è lì che sta fiorendo l' albero sacro». Incomincia a declinarsi il «pronome riflessivo» (Kierkegaard) con la voglia di andare oltre la soglia, fino al proprio centro. L'Io cerca casa, ma la trova all'aperto, perché l'Io non è una costruzione, ma una scoperta resa possibile da una danza che «danza verso la propria definizione» (M. Rukeyser), che è poi quella che Holderlin chiama «la grande ora». Proprio perché si è «infranta la propria fatalità» (Artaud) si può far prova della propria vita. E si è soliti dire che i giovani rappresentano il futuro. E con ciò si pensa che un giorno diventeranno adulti. Quindi la loro età è un transito. Niente di più falso. Il futuro è già ben descritto nel presente giovanile che, se appare aberrante, è perché noi adulti, consegnati alla nostra rassegnazione quando non al cosiddetto «sano realismo», abbiamo svilito il mito della giovinezza, che è quel dispositivo simbolico in cui sono già ben scritte e descritte le figure del futuro che solo la nostra pigrizia mentale e affettiva ci impedisce di cogliere. E bene ha fatto Maurizio Stefano Mancuso a ricordarcele.

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