giovedì 15 maggio 2014

CONCLUSIONI



«Supponiamo che una rosa..

provi sensazioni. Un bel mattino, essa fiorisce e gode di se stessa; poi, però, sopraggiunge un vento freddo e il sole si fa ardente. La rosa non ha scampo, non può eliminare i suoi travagli nati con il mondo: allo stesso modo, l'uomo non può essere felice ignorando che quei travagli esistono, e gli elementi materiali prenderanno il sopravvento sulla sua natura... 
Chiamate il mondo, vi prego, "la valle del fare anima" e allora scoprirete qual è la sua utilità (...) 
Dico fare anima intendendo per "anima" qualcosa di diverso dalla "intelligenza". Possono esistere milioni di intelligenze o scintille della divinità, ma esse non sono anime fino a quando non acquisiscono identità, fino a quando ognuna non è personalmente se stessa.» 

John Keats, poeta romantico inglese (link), da una lettera al fratello del 1819




Mettere alla porta l'ospite inquietante

Nel libro: "L'ospite inquietante - Il nichilismo e i giovani", di Umberto Galimberti, che ha costituito il filo conduttore di questo breve viaggio, le strade tracciate dall'autore per il superamento del "nichilismo" da parte dei giovani e per un loro approccio equilibrato alla vita, sembrano essere:



Quest'ultimo punto, rappresenta un fattore che potrebbe sensibilmente migliorare la qualità della vita delle persone, indipendentemente dalla loro età. 

Riscoprire se stessi è invece iniziare a "fare anima", anima come  "quel fattore umano sconosciuto che rende possibile il significato, che trasforma gli eventi in esperienze e che si comunica nell'amore" (James Hillman, 1964, Suicide and Soul). In una dimensione collettiva è riscoprire, risvegliare, dischiudere quei caratteri, tipici della giovinezza, spesso messi a tacere dal sentimento nichilista, fino ad essere talvolta ignorati del tutto dagli stessi protagonisti. Conoscenza di sé come primo passo della conoscenza del mondo, una sfida che può essere entusiasmante e, a dar retta a Nietzsche, dare "senso" alla stessa vita:
La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo sempre più ricca, più desiderabile e più misteriosa (…) La vita come mezzo di conoscenza. Con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente vivere e gioiosamente ridere”.
da: La gaia scienza - F. Nietzsche

Riuscite a rintracciare nel libro altre indicazioni del nostro autore? Quanto, questo percorso, ha accresciuto il vostro livello di "autoconsapevolezza"? 

A questa pagina c'é il wiki (link) , cioè il documento collaborativo, con delle domande stimolo e delle risorse, per suscitare la vostra riflessione in vista dell'incontro di lunedì, su "tecnica e nichilismo", con l'autore. Preparate e postate le vostre domande.

Buon lavoro!

MAPPA SU SIGNIFICATI E INCANTI

Carissimi,

ecco la mappa mentale riassuntiva delle risorse che avete individuato su quest'ultimo tema. Cliccandoci sopra si espande per una migliore leggibilità. Eccola.



mercoledì 14 maggio 2014

Il viaggio: per assorbire visi, parole, moltitudini, inghiottire l’universo...




"Viaggiare ti riconcilia con il mondo specie quando si sente tutto molto stretto, una gabbia dorata che ci siamo costruiti per gli altri e per noi. Viaggiare per svegliarsi. Viaggiare per cambiare prospettive. Perché il viaggio e’ un salto verso qualcosa che si vorrebbe fare. Partire senza pianificare per non limitarmi le possibilità’ che ho davanti e trovare di volta in volta, giorno dopo giorno, le soluzioni, le strade, le informazioni che servono. Partire solo con la mia macchina fotografica, il mio diario, la mia musica e il mio zaino per scoprire un’altra dimensione. Passare giorni interi senza parlare incrociando poche persone. E quando incontrerò persone saranno la parte più bella del mio viaggio. Un viaggio per avere tempo per me, senza essere condizionata da niente e da nessuno, senza compromessi ma trovarmi faccia a faccia con quello che sono. Sentire finalmente l’unica voce che ha il diritto di dirmi qualcosa : la mia. Sentirmi avida di vita ed essere spinta da nessun’altra forza se non da me stessa. E alla fine ritornare alla mia “Itaca” di un calore nuovo e mio, delle passioni risvegliate e ora vive. Ricca di esperienza e di vita vissuta. Vorrei poter girare il mondo, viaggiare senza limiti, conoscere paesi e culture, rimanere affascinata da ciò che l’occhio umano può osservare.
Voglio vivere, voglio essere affamata, voglio essere folle".

http://claudiamarone.wordpress.com/2014/04/22/e-poi-vorrei-un-viaggio/

Potenza come spirito che sfida romanticamente gli elementi: Dedalo e Icaro

La caduta di Icaro - Autore: Jacob Peter Gowy, da bozzetto di Peter Paul Rubens
Datazione: 1636/38 - Collocazione: Madrid, Museo del Prado 


La figura di Icaro, può esprimere il sentimento di potenza inteso come spirito che sfida romanticamente gli elementi. Nel piacere e nell'ebbrezza del volo, nel sentimento di dominio e di superamento dei limiti delle possibilità umane e nel sentimento travolgente di ingenua potenza che ne deriva, egli finisce con il dimenticare la saggia ingiunzione paterna di non avvicinarsi al sole. Così, romanticamente, perisce.

"Dedalo, era nato ad Atene ed era pronipote di Eretteo, re della città. Si dedicò alla scultura e all'architettura, era abilissimo in ciò che faceva; si narra che le sue statue sembravano vive a tal punto da raccontare che esse aprivano gli occhi e si muovevano. A Dedalo sono attribuite le invenzioni dell'ascia, la sega, il trapano, il passo della vite, l'archipenzolo. E' stato maestro di suo nipote Talo, figlio di una sua sorella, che uccise per gelosia quando Talo superò il maestro nella sua arte. L'Areopago, il tribunale, lo condannò all'esilio perpetuo; Dedalo si rufugiò a Creta dove fu accolto benevolmente dal re Minosse che gli commissionò il Labirinto per rinchiudere il Minotauro. A Dedalo, si rivolse Arianna, la figlia di Minosse, per sapere come aiutare Teseo a uccidere il Minotauro e uscire dal Labirinto, e come sappiamo il consiglio del filo riuscì a far trinofare Teseo nell'impresa. Quando Minosse venne a sapere che ad aiutare sua figlia e Teseo fu Dedalo, e non potendo prendersela con la figlia fuggita insieme all'eroe, pensò di punire Dedalo, rinchiudendolo insieme al figlio, Icaro, nel Labirinto, che egli stesso aveva progettato. L'unico modo per uscire dal Labirinto era evadere volando; ingegnoso come era, Dedalo costruì due paia di ali, uno per sè e l'altro per il figlio. Si raccomandò con Icaro di restargli sempre dietro durante il volo, di non strafare e soprattutto di stare attento a non avvicinarsi troppo ai raggi del sole perchè, le ali, attaccate alle spalle con della cera, potevano staccarsi in quanto il calore avrebbe sciolto la cera. Come non detto, Icaro durante il volo, provando piacere si allontanò dal padre e raggiunse i raggi del sole che sciolsero la cera e lo fecero precipitare nel mare, dove morì. Dedalo triste e desolato, atterrò in Campania a Cuma, dove costruì un tempio al dio Apollo, consegnando le ali che aveva inventato per evadere dal Labirinto di Creta".
Tratto da: http://mitologiagreca.blogspot.it/2008/02/dedalo-e-icaro.html

martedì 13 maggio 2014

Accelerazione della vita: voglio una vita esagerata

Vita spericolata è il titolo di una celebre canzone scritta da Vasco Rossi per il testo e da Tullio Ferro per la musica, presentata per la prima volta al XXXIII Festival di Sanremo dallo stesso Rossi, dove si classificò al penultimo posto. La canzone fu pubblicata come 45 giri insieme a Mi piaci perché ed inserita nell'album Bollicine (1983).
È una delle canzoni italiane più conosciute dai giovani ed è stata ripresa da numerosi artisti tra cui Francesco De Gregori che la inserì nel suo album Il bandito e il campione che vendette 500.000 copie e Massimo Ranieri nell'album Canto perché non so nuotare...da 40 anni. Anche Gino Paoli termina la sua Quattro amici con l'inciso di Vita spericolata, cantato per l'occasione dallo stesso Vasco.

http://it.wikipedia.org/wiki/Vita_spericolata

lunedì 12 maggio 2014

Coralità giovanile

"... sensazione di appartenere a una comunità nascente, di nascere insieme al mondo, stupore del riconoscimento di sé attraverso quel palpito che muove migliaia di cuori che fanno un unico cuore".


La sfida che tradisce il desiderio di un mondo migliore


"Nell’anno del Signore 1314, patrioti scozzesi,
affamati e soverchiati nel numero, sfidarono il campo di Bannockburn.

Si batterono come poeti guerrieri, si batterono come Scozzesi e si guadagnarono la libertà!"

da Braveheart, 5 premi Oscar (recensione del film con Mel Gibson: linkche narra  l'eroismo degli scozzesi, nella Scozia del XIII secolo, contro la prepotenza e l'arroganza degli inglesi.

L'assenza - Il fil rouge dei racconti di Deborah Willis

Kissing Magritte di Joe  Webb (link)


Si può raccontare quel senso di vuoto – che sempre si accompagna ad un inevitabile stupore – scaturito dall’assenza, dalla percezione di una mancanza, dalla perdita, di qualcuno, o qualcosa? E così anche, si può raccontare l’assenza – di nuovo, di qualcosa o qualcuno - talvolta così dolorosa ed opprimente, un’ossessione che diviene concreta, reale, tangibile, da trasformarsi, quasi, paradossalmente, nel suo esatto opposto: ossia in una pienezza, una presenza? È quel che riesce straordinariamente a fare la scrittrice canadese Deborah Willis nel suoi racconti raccolti in un unico volume sotto il titolo di “Svanire” – tradotti e pubblicati in Italia da Del Vecchio Editore nell’ottobre 2012 – originariamente apparsi su “Event”, “Grain”, “PRISM international” e sull’antologia britannica “Bridport Prize Anthology”, poi raccolti e pubblicati in “Vanishing and other Stories”, che è stato nominato come uno dei migliori libri del 2009 dal “Globe and Mail”. I personaggi che la Willis descrive – usando una prosa narrativa ridotta ai minimi termini, padroneggiando con grazia e originalità gli stilemi cari al minimalismo narrativo (di cui Raymond Carver è maestro) – emergono dalle pagine con una nitidizza quasi plastica eppure ciò che li contraddistingue non è tanto l’agire esteriore, quanto una vivacità interiore in nuce, ancora al di là dall’esprimersi pienamente, colta nel momento della stasi che sempre precede il divenire della trasformazione. Personaggi in qualche modo bloccati in un momento, toccati, o traumatizzati quasi, da un fatto preciso – che può essere avvenuto pure molto tempo prima: la scomparsa di un loro caro, la morte improvvisa di qualcuno, ma anche l’incomprensione, o forse sarebbe meglio dire l’incomprensibilità di un evento del quale le loro esistenze rimangono purtuttavia impregnate, come se esso – il fatto in sé – fosse un abito impossibile da togliersi, una seconda pelle, quasi. Se dovessi trovare l’equivalente cinematografico per i racconti della Willis, direi senz’altro i film di Jim Jarmush perché anch’essi – proprio come questi racconti – narrano sprazzi di esistenze che in qualche modo si toccano ed incrociano; di incontri, che possono durare attimi, ma segnare per sempre; di eventi, singoli episodi che, pur nella loro aleatoria inafferrabilità ed impossibile dotazione di senso, rimangono purtuttavia espressioni di vita autentica, anche nel disagio e nel dolore. I dialoghi invece spesso riescono a trasmettere quel senso di solitudine e gelo – scaturiti dall’incomunicabilità e dall’impossibilità di condividere le profondità abissali del proprio io, ciò che, in un’ultima esistenza è sempre l’origine della vera solitudine esistenziale, una condizione che, più o meno, accomuna tutti – che sempre ho colto nei dipinti di Edward Hopper. Personaggi, questi della Willis, immersi in una propria dimensione dalla quale talvolta è impossibile evadere. Così, ad esempio, espressione dell’incomunicabilità di cui sopra è il racconto “Tracce”: marito e moglie che, pur condividendo un’affinità ed una sintonia rese salde dall’abitudine e dall’aver ormai imparato a conoscersi, sono consapevoli di quanto l’altro da noi rimanga sempre sfuggente, un’idea quasi, un tentativo di immaginazione, un estraneo, seppure in qualche modo intuibile a sprazzi, oltre la pesante coltre delle menzogne del linguaggio convenzionale: “Se lo studio delle parole ha insegnato qualcosa a Peter (e quindi a me) è la disinvoltura nella menzogna. Ogni parola è una frode, una piccola, insignificante collezione di suoni che finge di essere ciò che non è: gatto, caso, marito” (e come non pensare al celebre dipinto di Magritte che recita “ceci n’est pas une pipe”?); e ancora a proposito dell’illusione che la parola reca con sé: “Una serie di damerini a un ballo in costume. E tutti accettano questa buffonata come se le parole, coperte dalle loro maschere e dalle cappe di consonanti, non stessero fingendo affatto. Siamo tutti complici consenzienti, mi ha detto una volta Peter: anche solo dicendo buon giorno a un vicino, stiamo partecipando alla grande bugia”. In soccorso a questa solitudine esistenziale scaturita dalla difficoltà di condividere, realizzare o espandere la propria vita (paure, desideri, sogni, aspettative), viene sempre il contatto fisico, l’immediatezza e spontaneità di un abbraccio, l’impulso improvviso che porta i corpi ad avvinghiarsi l’uno all’altro, seppure per un momento, seppure restando consapevoli che, dopo, sciolto quel contatto quasi primitivo, dettato da una spinta primordiale a socializzare, tutto tornerà come prima: come nel racconto intitolato “Fuga”, in cui un uomo, dopo la morte della moglie, si dà al gioco e comincia ad osservare e poi a seguire l’enigmatica donna che dà le carte, nella speranza di ottenere un qualcosa che non saprebbe bene definire nemmeno lui. O come nel bellissimo – forse il mio preferito della raccolta – “Ricorda, rivivi”, in cui sulla giovane protagonista pesa il ricordo di un fatto avvenuto anni prima, durante il matrimonio di sua sorella, quando aveva solo tredici anni, e finalmente trova la maniera di liberarsene affidandolo alla madre che sta lentamente perdendo la memoria; il racconto, come alcuni altri, si avvale dell’originale uso della seconda persona narrante che parla e si rivolge a sé stessa (sono davvero rari i casi di romanzi narrati in questa maniera, uno dei più famosi, restando nella letteratura anglo-americana moderna, è “Le mille luci di New York” di Jay McInerney) e così, infine, si libera della presenza ossessiva ingombrante e del suo senso di colpa: “Ora il tuo segreto è suo, da conservare nello scompigliato cassetto della sua mente. Adesso è suo, che lo perda”. Abbiamo parlato del tema dell’assenza – che può essere intesa in molti modi, come perdita di qualcuno, appunto, ma anche come ciò che si vorrebbe essere – in quel momento in bilico della propria esistenza, l’adolescenza, quando ancora niente si è, ma tutto si potrebbe diventare -eppure, già solo si intuisce, che in qualche modo ci sono strade e percorsi e maniere di divenire che saranno quasi obbligati, impossibile da eludersi, o anche da raggiungere: come ne “Il Planetario”, in cui la protagonista è affascinata dalla grazia e bellezza di una ragazza della sua scuola di un anno più grande, Mary Louise: “Benché il suo nome abbia un che di cattolico, non credo fosse credente. Però sapeva suscitare una specie di religiosa devozione nella maggior parte di noi che frequentavamo le superiori con lei”; e poi “So perché l’abbracciai. Soprattutto perché mi mancavano Jay e Syl e non volevo essere sola. Ma anche perché volevo toccare la divinità in Marie Louise; volevo vedere il sublime.” Così l’io narrante della giovane protagonista, esprime quella ferita e mancanza data dall’impossibilità di essere altro da ciò che siamo. E ancora, la condanna di un io irriducibile a non poter divenire ed essere altro da ciò che siamo (mentre ogni tentativo di appropriarsi di altre vite svanisce) è reso emblematicamente in “Quest’altro noi”, dove alla fine, seppure dolorosamente per la protagonista, si ricompone un’armonia iniziale che era stata ad un certo punto scomposta (e sembra affermarsi quell’esistenza oggettiva di cui il premio Nobel Wislawa Szymborska ha parlato nella poesia “La Stazione“), o nel racconto finale “La separazione”, dove la piccola protagonista diviene presto consapevole che il legame con coloro che si amano – seppure nella loro assenza e separazione fisica – è un qualcosa che rimane sempre tangibile: “Quello che capii, più tardi, ma sempre molto prima che lo capisse Claudia, è che era impossibile. Che non avremmo mai potuto evadere.Qualunque cosa facessimo, non avremmo mai potuto separare loro da noi. (…). Erano i nostri genitori.” Come detto all’inizio, il filo conduttore di ognuno di questi racconti è dunque la mancanza di qualcosa, o anche una separazione fisica, una perdita, ma anche l’aspirazione, il desiderio di qualcosa che non c’è o non è possibile; ognuna di queste mancanze però, tutto questa aleatorietà di qualcosa che svanisce, è anche al tempo stesso talmente presente da divenire pienezza, da impregnare e lasciare le sue tracce ovunque, come un odore, le cui note dominanti sono quasi svanite, eppure indiscutibilmente ancora presenti. 

Deborah Willis - Svanire

Sfide: dai giovani alla società, per un mondo migliore

Marcia per la pace Perugia -Assisi











Indignados


Sfide: dalla società ai giovani, in un Contesto di Globalizzazione

Prefazione: I giovani sono nati contemporaneamente alla globalizzazione e dovranno raccogliere un certo numero di sfide. Questo sistema mondiale stabilito dai loro predecessori in risposta a certi problemi, soprattutto economici, deve permettere a ciascuno di trovarsi un posto. Come fare in modo che i giovani combinino efficacemente con gli ingranaggi di questo sistema? Questo articolo solleva alcune di queste sfide facendo appello alla responsabilità degli adulti per accompagnarli.

Interrogare i giovani sul concetto della globalizzazione è come chiedere ad essi di confrontare diversi sistemi socioeconomici quando conoscono solo quello. In effetti, la globalizzazione è stata istituita da adulti attivi o pensionati. Essa trae le proprie origini dalle questioni economiche e sociali che hanno portato alla crisi e alle ristrutturazioni in seguito alle lotte tra i datori di lavoro e i loro dipendenti sindacalizzati. Questi scontri si basano sulla redditività e produttività in un periodo di alta tecnologia di cui alcune aziende non vogliono più farsi carico da sole, in particolare nel mondo occidentale. Oggi, la globalizzazione permette ai dirigenti di trasferire tutta o una parte della loro impresa nei paesi in cui la mano d’opera è a buon mercato e i costi di produzione sono minimi.
I giovani subiscono pertanto la globalizzazione nel suo aspetto economico e sociale, ma essi sono stati sufficientemente informati su queste implicazioni per sapere come adattarvisi? Le imprese e le istituzioni scolastiche hanno saputo prepararsi per aiutare i giovani a vivere in questo contesto? Quando è stato deciso di mettere in opera questo sistema, si vedevano solo i vantaggi. Spesso, quando si stabiliscono nuove regole in una società, si vede solo il bene che possono fare, senza preoccuparsi delle conseguenze che possono anche causare. I giovani sanno che la globalizzazione è oggi rimessa in questione per molteplici ragioni? Questo sistema economico mondiale non ha a che vedere con il senso della moralità e dell’etica. Quando si utilizza il profitto e la produttività al minimo costo come base di funzionamento, l’etica e la moralità si trovano a mille miglia di distanza dal concetto economico. Sono molte le voci che hanno espresso la necessità di umanizzare la globalizzazione, ma questo obiettivo è realizzabile? In realtà, questo concetto è stato istituito per contrastare l’ambizione smisurata del dipendente, per neutralizzare il potere dei sindacati e per rimettere in questione il crescente benessere dei lavoratori che, nei paesi occidentali, guadagnano dei buoni stipendi. Ciò ha infastidito i capi d’impresa, gli uomini d’affari e più esattamente gli azionisti. La loro avidità li ha resi sordi agli appelli di coloro che presagivano le conseguenze di questo andamento nelle società che, benché attualmente privilegiate, subiranno a lungo termine uno sfortunato contraccolpo.

Le sfide da raccogliere

UNA PRIMA SFIDA: QUELLA DELLA COMPETENZA
Di fronte alla globalizzazione, molte sono le sfide che incombono sui giovani. La prima, quella della competenza, rientra nella forte concorrenza sullo scacchiere mondiale. Bisogna pensare che un ingegnere che lavora in India costa meno al suo datore di lavoro che se lavorasse in America Settentrionale. Un medico che esercita la sua professione negli Stati Uniti potrà difficilmente guadagnarsi da vivere nei paesi in via di sviluppo, perché il suo modo di vivere e di lavorare non è conforme agli standard di quei paesi e le sue richieste salariali sono molto più elevate. Al contrario, data la loro attuale situazione economica, un indiano, un africano e un cinese hanno meno esigenze e costano di meno ai datori di lavoro. Di conseguenza, i giovani dell’America Settentrionale e dell’Europa devono diventare non solo competenti, ma altrettanto pronti ad agire per fare valere le loro qualità personali di leadership, la loro perspicacia nonché le loro capacità e competenze.
UNA SECONDA SFIDA:MODERARE IL DESIDERIO DI POSSEDERE TUTTO
Una seconda sfida li attende: quella di moderare il loro desiderio eccessivo di possedere tutto. In una società dell’abbondanza come la nostra, occorrerà diminuire alcune esigenze allo scopo di attenuare i costi necessari al mantenimento dei programmi sociali attuali. I giovani dovranno stabilire norme di vita che li porteranno ad emanciparsi, a sostenersi e a diventare cittadini responsabili. La globalizzazione elimina poco a poco lo Stato assistenziale, non solo per mancanza di mezzi, ma soprattutto per strategie. Muove una certa ricchezza dai paesi occidentali verso altri paesi. Un cambiamento importante ha luogo. Come sottolinea Blinder (2007), la nuova rivoluzione industriale con la tecnologia rischia di causare l’esodo di circa 40 milioni di posti di lavoro americani semplicemente nel corso dei prossimi 10 o 20 anni; questo rappresenta il doppio del numero attuale di lavoratori del settore manifatturiero. La precarietà dell’impiego che colpisce questi ultimi non è che la punta dell’iceberg. Questa situazione evidenzia che le sfide non dipendono unicamente da un problema strutturale, ma anche dalle scelte future della società. Anche se la globalizzazione è rimessa in questione, è attualmente integrata in un sistema e coloro che vi sono impegnati non cambieranno le loro azioni ed i loro comportamenti da un giorno all’altro.
Occorre quindi incoraggiare i giovani a mettere in questione la globalizzazione e a creare un mondo nuovo che saprà rispondere ad una redditività e ad una produttività corrispondenti all’interesse nazionale combinando i bisogni dei lavoratori con quelli dell’impresa. Oggi, i conflitti nell’impresa sono chiari: l’imprenditore non ne vuole più sapere del lavoratore esigente e troppo interessato al guadagno; lo vuole dominare, anzi neutralizzare. Questo disegno economico che consiste nel limitare gli stipendi e nel mantenere una produttività più elevata è già in essere e resterà. A titolo di esempio, a livello globale, le richieste salariali in corso dei lavoratori sudcoreani riducono la redditività aziendale. È anche il caso del Nord Africa, dove i lavoratori sono meno redditizi di quelli della Cina a causa dell’adeguamento degli stipendi dei nordafricani al costo della vita. Profonde trasformazioni avvengono nel mondo del lavoro. I dirigenti delle imprese, ma soprattutto gli azionisti, si stanno muovendo in luoghi dove possono guadagnare di più, ma riflettono poco sulla portata della loro decisione. Se, alla fine, 40 milioni di posti di lavoro sono eliminati soltanto negli Stati Uniti, che ne sarà nel resto del mondo? Quali saranno le conseguenze di queste perdite di posti di lavoro? Ci saranno forse gravi conflitti nelle società moderne che non avranno più i mezzi per rispondere alle necessità delle loro popolazioni? I popoli esprimeranno il desiderio di chiudere le frontiere del loro paese per proteggersi?
Samuelson (2004), Premio Nobel, rimprovera gli economisti per le loro presunzioni semplicistiche nei riguardi della globalizzazione e ritiene che i lavoratori dei paesi ricchi non siano sempre favoriti dal commercio. Questa osservazione ha stupito molti. Summers (2006), ardente difensore dell’espansione commerciale quando era Segretario del Tesoro sotto l’amministrazione Clinton, ha detto che, coloro che sostengono che la globalizzazione è inevitabile e che il riciclaggio è sufficiente ad aiutare i lavoratori dipendenti dislocati, offrono una ben piccola consolazione alla classe media mondiale molto preoccupata. I giovani devono dunque prepararsi ad un nuovo modo di vedere la globalizzazione e, allo stesso tempo, essere capaci di vivere all’interno di questo sistema e di ritagliarsi un posto. Ciò esigerà un grande sforzo di responsabilizzazione. Inoltre, con la popolazione che invecchia, la base fiscale diventa sempre più limitata. I giovani devono rinunciare a questa idea di una società degli hobbies inculcata loro sin dagli anni 1970. Non si possono più offrire posti di lavoro nemmeno a bassa retribuzione nelle fabbriche, dato che queste si spostano in altri paesi. Per poter essere concorrenziali, persino le industrie ad alta tecnologia devono assicurarsi che il loro prodotto non costi troppo. Questo obbligherà i giovani a rendere sempre di più, ma anche a ridurre il loro desiderio di usufruire di una società degli hobbies – del tempo libero – destinata a scomparire, e con essa la settimana di 35 ore. L’agiatezza tale come la si concepiva oltre 30 anni fa è superata. Oggi, i valori da promuovere sono il senso della responsabilità e il senso del lavoro per ritagliarsi un posto nelle società occidentali d’America Settentrionale e d’Europa.
UNA TERZA SFIDA: AMARE IL PROPRIO LAVORO E NON DISPREZZARE NESSUN GENERE DI LAVORO
Una terza sfida da raccogliere per i giovani sarà quella di amare il loro lavoro, poco importa la categoria, a condizione che esso risponda ai bisogni della società nella quale vivono. Qualunque posto di lavoro dovrà essere valorizzato, sia esso lavoro di fabbrica, manuale, intellettuale o di alta tecnologia. Ogni essere umano merita il rispetto e la considerazione per il lavoro che fa, ma anche per quello che è. I giovani devono essere onesti, empatici, avere il senso dell’etica ma anche l’amore della nazione e dell’essere umano. Occorre evitare che aderiscano all’idea che la plus-valenza prenderà posto nei paesi ricchi e che il resto del lavoro sarà inviato nei paesi in via di sviluppo. Questo pensiero è sprezzante e degradante per i popoli che non hanno avuto la possibilità d’avanzare tecnologicamente o economicamente. Questa sfida riguarda anche il rispetto dell’individuo e dei diritti della persona. Non è sufficiente però avere solo diritti, bisogna anche farli rispettare. Certamente, sia che si tratti di uno spazzino, di un edile o di un ingegnere, la loro posizione sociale e la loro responsabilità sono diverse, ma l’emozione che si prova in quanto esseri umani è la stessa quando si è disprezzati, umiliati o frustrati. Per i giovani questa sfida è la più complessa e la più difficile da affrontare perché essa esige un cambiamento di mentalità, in particolare riguardo al disprezzo per i più deboli o i più poveri.
LE ALTRE SFIDE
Le altre sfide sono molteplici. Pensare all’uguaglianza ed applicare questo principio sono due realtà diverse. La parità attuale tra i popoli attraverso la globalizzazione, deriva dal trasferimento delle risorse umane. Degli immigrati vivono qui in Canada e gente di qua va a vivere altrove. Per favorire e valorizzare gli scambi commerciali, la globalizzazione ha eliminato le frontiere. Ma per gli esseri umani, le frontiere si aprono molto più lentamente. In occidente, l’immigrazione non è accettata con generosità. La diminuzione delle nascite forza i popoli più ricchi a compensare il rinnovo limitato della loro popolazione. Se anche le generazioni di immigrati che arrivano non hanno tutte le competenze degli occidentali, i loro figli però le avranno. Sarebbe sbagliato riprodurre in America Settentrionale i problemi come quelli che conosce, ad esempio, la Francia: i bambini francesi di origine araba chiamati ‘beurs’ hanno dentro di sé una grande rabbia, perché anch’essi hanno diritto ad un loro posto.
Convivere, imparare a vivere insieme e rispettare ogni persona sono ulteriori sfide per i giovani. Ma la più grande tra le sfide è quella dell’ambiente. Purtroppo i giovani ereditano un pianeta inquinato. Come sanarlo e sviluppare energie pulite? Questo lavoro richiede intelligenza, precauzione, competenza e ingegnosità per portare idee nuove ed utili al benessere di tutti. Come cessare di gettare i rifiuti dai paesi più ricchi ai più poveri? Come smettere di spostare l’inquinamento atmosferico degli uni agli altri?
IL RUOLO DEGLI ADULTI
Il sistema della globalizzazione è stato stabilito dagli adulti per regolare conflitti durante il decennio 1960-70. Ecco perché non si può lasciare i giovani a se stessi e credere che sapranno cavarsela da soli. I programmi di istruzione dovranno essere rivisti al più presto per dare ai giovani l’opportunità di avere una formazione polivalente. Oltre al conseguimento di un diploma e delle conoscenze tecnologiche, bisognerà anche permettere loro di disporre di un’identità forte, di carisma, di varie competenze e di leadeship. Ciò è valido per tutti i giovani, ma specialmente per quelli che diventeranno dirigenti e che faranno parte delle istanze decisionali nel sistema della plusvalenza che non sarà sufficiente nei paesi occidentali, dal momento che anche in altre parti del mondo un recupero sarà stato fatto in questo settore.
In quanto ai piani dello sviluppo economico, della tecnologia e della qualità del lavoro, i nordamericani e gli europei non possono più sperare di preservare le professioni cosiddette superiori e credere che solo i lavori dei settori industriali o manifatturieri andranno verso i paesi economicamente meno sviluppati. Questo spostamento dei posti di lavoro prenderà 10 o 15 anni? All’inizio si era creduto che la Cina sarebbe stato un paese economicamente importante verso l’anno 2030. Eppure nel 2009 si deve già contare su di essa. È impossibile predire come sarà l’economia tra 30 o 50 anni. La situazione cambia da un anno all’altro. Bisogna dunque avere l’intelligenza di non disprezzare nessun genere di lavoro.
Senza la collaborazione e il sostegno degli adulti e senza la presa di coscienza dei mass media come partner a pieno titolo del benessere sociale, avremo delle difficoltà a raggiungere questi obiettivi, anche se proprio i giovani stessi vogliono raccogliere le sfide. Dobbiamo lavorare insieme, sostenere i giovani e dar loro tutte le opportunità affinché realizzino il loro avvenire. Allora soltanto potremo dire “missione compiuta”, poiché l’ urgenza è di sapere preparare un futuro di qualità per i giovani. Ciò sarà innanzitutto un sacrificio da parte degli adulti che, riconosciamolo, tendono piuttosto all’egoismo e al mantenimento dei loro privilegi e della loro sicurezza.∎

Una sfida dalla "terra dei fuochi"


                                                                   -Moncef Guitouni LINK

Il viaggio

...
Ma i veri viaggiatori partono per partire;
cuori leggeri, s'allontanano come palloni, 
al loro destino mai cercano di sfuggire, 
e, senza sapere perché, sempre dicono: Andiamo! 

I loro desideri hanno la forma delle nuvole,
e, come un coscritto sogna il cannone, 
sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli
di cui lo spirito umano non conosce il nome!...

Charles Baudelaire (da Les fleurs du mal)

Il viaggio come rappresentazione allegorica della crescita: L'ALCHIMISTA di PAULO COELHO


Il romanzo L'Alchimista racconta la vicenda del giovane pastore Santiago, sfruttando due temi sempreverdi della letteratura mondiale: il viaggio e il sogno. La fabula si snoda in un arco temporale di due anni mediante una narrazione molto intima e carica, che finisce col dare alla vicenda un senso molto più pregnante e, per certi versi, sacrale di quel che sembri: scopo apparente del viaggio, infatti, è - per il giovane Santiago - l'inseguimento di un sogno ricorrente, secondo il quale, ai piedi delle Piramidi, vi sarebbe un ricchissimo tesoro nascosto. In realtà, l'avventura che lo porterà dall'Andalusia - sua terra natale - fino sotto le Grandi Piramidi d'Egitto, finirà per rappresentare un insieme di durissimi banchi di prova, rappresentazione allegorica della crescita.
Tra i personaggi più importanti nell'economia del romanzo, vi è una strana figura che caratterizza alcune delle primissime pagine: il vecchio e saggio Re di Salem, Melchisede. La stranezza più grande di questo savio è il fatto che egli conosca a menadito qualsiasi dettaglio della vita di Santiago, anche se il ragazzo giurerebbe di non averlo mai visto prima. Il vecchio incita il ragazzo a vendere le sue pecore e ad intraprendere il viaggio e gli fa anche dono di Urim e Tumim (due pietre che indicano il cammino da compiere, poiché una indica il no e l'altra il ), oltre a dispensargli una serie di utili consigli e splendidi aforismi che pervaderanno tutto il resto del romanzo.
La prima tappa di Santiago è Tangeri, la città-ponte verso l'Africa. Il giovane, molto ottimista e un po' ingenuo, viene immediatamente derubato da un suo coetaneo di tutto il denaro che possiede ed è costretto a rimboccarsi subito le maniche per riguadagnarsi quanto perduto. Entra nella bottega di un Mercante di cristalli malinconico e sull'orlo del fallimento; nel volger di un anno, grazie al suo spirito d'iniziativa e anche ad una strana magia che lo accompagna in ogni dove, riesce a far diventare l'emporio uno dei più prosperi della città e a riprendere il suo cammino, forte di un bel gruzzolo e di un'esperienza nuova.
Si unisce, quindi, ad una carovana diretta nel deserto, dove incontra un uomo di nazionalità inglese che, dopo aver passato la sua vita a studiare l'alchimia, ha intrapreso a sua volta un viaggio per incontrare un saggio Alchimista nell'oasi di El-Faiyûm. In realtà, da quanto poi emergerà dal romanzo, l'Alchimista non sta aspettando che Santiago, per dispensargli aiuto e consigli utili ad arrivare al suo tesoro. Ad El-Faiyûm, Santiago sconfigge dei beduini (che, impegnati in una lotta tra clan, attaccano l'oasi - zona tipicamente franca) e incontra una ragazza araba, Fatima, di cui s'innamora - corrisposto-. Il suo percorso verso le Piramidi, però, deve proseguire; lasciata la ragazza con la promessa di ritornare al più presto, va in cerca del tesoro, scortato per un pezzo dall'Alchimista. Arrivato alle piramidi, troverà un gruppo di predoni che lo deruberanno nuovamente. Prima di andarsene il capo dei predoni gli rivela che anche lui aveva fatto un sogno due anni prima, non dandoci importanza, ma questo sogno rivela a Santiago la via per il tesoro. Riuscirà infine a ritornare sano e salvo dall'amata, finalmente cresciuto.

http://it.wikipedia.org/wiki/L'Alchimista_(Coelho)

La decrescita, i giovani e l'utopia di Jean-Louis Aillon

"Essere giovani, oggi, è un’impresa colossale. A sedici anni ci si ritrova soli a fare i conti con il senso della propria esistenza e con un mondo che cade a pezzi, in uno scenario in cui il futuro da “terra promessa” si è trasformato in minaccia. Sradicati dal proprio passato, senza la possibilità di proiettarsi in un qualche futuro, senza guide, è quasi impossibile trovare la propria strada e non si può che brancolare nel buio in un eterno presente, facili prede del mercato e dei suoi miraggi.
È possibile uscire da questo vicolo cieco? Un sentiero percorribile vi sarebbe ed è quello tracciato dalla decrescita. I giovani sono, però, sordi ai nostri richiami. I pensatori della decrescita si sono, infatti, focalizzati per lo più sull’analisi della realtà degli adulti e, sebbene le cause dei problemi siano simili, il mondo dei giovani risulta, però, essere completamente diverso. Diverso è, quindi, il percorso da delineare. Questo è ciò che tenta di fare Jean-Louis Aillon in questo saggio, attraverso un’attenta analisi psico-sociale e culturale del disagio, cercando di scandagliare l’universo giovanile attraverso la lente della decrescita, alla ricerca di nuovi possibili orizzonti. Se abbiamo gli strumenti e il coraggio per guardare in faccia la realtà, questa si trasforma. La “nostra” crisi diventa, allora, un’opportunità per comprendere noi stessi e il mondo che abbiamo di fronte. Riprendiamo, quindi, in mano le redini del nostro futuro, ritorniamo protagonisti e... l’utopia può diventare realtà.
Jean-Louis Aillon, 28 anni, medico, specializzando in psicoterapia dinamica adleriana. È vicepresidente del Movimento per la Decrescita Felice e referente del gruppo tematico “Decrescita e Salute”. È stato fondatore e presidente del circolo della Decrescita Felice di Torino e del Comitato Rifiuti Zero Valle d’Aosta. A livello di ricerca, si interessa principalmente dei temi inerenti la decrescita, la salute (in particolare nell’ambito dell’etnopsichiatria critica e della psichiatria culturale) e i giovani". 
La Decrescita, i giovani e l'utopia
http://www.editoririuniti.it/libri/decrescita-giovani-e-utopia.php..

La decrescita è una corrente di pensiero politicoeconomico e sociale favorevole alla riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi, con l'obiettivo di stabilire relazioni di equilibrio ecologico fra l'uomo e la natura, nonché di equità fra gli esseri umani stessi (da wikipedia)Decrescita è inteso come rimettere al centro l'uomo e la sua vita in armonia con la natura. L'economia deve tornare ad essere un mezzo per garantire una vita migliore, non finalizzato a produrre sempre più ma a produrre "meglio". Il miglioramento delle condizioni di vita deve essere ottenuto non con l'aumento dei consumo di merci ma con il miglioramento dei rapporti sociali, dei servizi collettivi, della qualità ambientale. La costruzione di questo nuovo modello vede l'impegno di numerosi intellettuali, al seguito dei quali si sono formati movimenti spesso non coordinati fra loro, ma con il fine comune di cambiare il paradigma dominante dell'aumento dei consumi quale fonte di benessere.

Utopia: Imagine - John Lennon

Pete Revonkorpi, in arte Pesare, illustratore finlandese


Imagine there’s no heaven
 It’s easy if you try
No hell below us
Above us only sky
Imagine all the people
Living for today

Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace

You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will be as one 

Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world

You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will live as one

domenica 11 maggio 2014

I giovani tra malessere e utopia


(Tommaso Moro coniò il termine "utopia", con cui battezzò un'immaginaria isola dotata di una società ideale, di cui descrisse il sistema politico nella sua opera più famosa, L'Utopia, pubblicata nel 1516).


Da:http://www.giuseppetomai.com/articolo/7/-i-giovani-tra-malessere-e-utopia.html
Di seguito propongo alcune suggestioni-considerazioni che nascono dalla mia esperienza professionale, soprattutto nei servizi sociali, a contatto con famiglie, individui, e bambini fortemente problematici dove il disagio si avverte, subito, si sente sulla pelle, disagio che è difficile, spesso, solo guardare in faccia perché ferisce, violenta la tua anima e la taglia come una lama affilata lasciandoti senza fiato. Una prima considerazione è quella intorno ad una serie di fenomeni che vanno gradualmente aumentando nella società : l’aumento considerevole dei fenomeni di dipendenza con comportamenti compulsivi; alcool, droghe, cibo, psicofarmaci, gioco, sesso, internet, cellulare. Vere patologie che vanno dal senso di estraniamento, dalla scissione di personalità ad elementi di mancato contatto con la realtà fino a sindromi depressive e un forte aumento dei tentati suicidi nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni. Ci sono circa 45.000 ricoverati l’anno solo in Italia per tentati suicidi veri e propri (fascia 15-24 anni) e 360 suicidi, escludendo la mortalità per incidenti stradali di giovani che sembrano essere i ¾ dei morti per cause varie. Sono dati che ci devono far riflettere, come l’aumento considerevole delle anoressie: pensate che pochi anni fa, in un anno, fra maggio e luglio, ci sono stati a Firenze e provincia ben cinque convegni sull’anoressia, convegni clinici in cui la stessa Palazzoli Selvini ( psicoterapeuta della famiglia ) per la prima volta, credo, si è espressa nei confronti dell'anoressia-bulimia come di una vera e propria epidemia sociale; sono queste parole molto significative, tanto più se dette da una professionista che da anni si occupa della relazione familiare. Recalcati, psicanalista milanese, ci ha fatto sapere delle continue e numerose richieste di aiuto che vengono in questa direzione dalle famiglie e dagli individui, tanto che si comincia per la prima volta a pensare proprio a delle comunità terapeutiche per anoressiche. Sappiamo che diminuisce sempre di più l’età di insorgenza del sintomo (12-13 anni) e che l’anoressia coinvolge anche il sesso maschile ( incidenza che prima era più nascosta o comunque, meno rilevante). L’altro fenomeno di notevole diffusione sociale è la tendenza ad esercitare giochi e sport estremi in cui si rischia la vita: ad esempio il gioco dello scatolone sembra cominci ad essere abbastanza diffuso; consiste nel mettere uno scatolone in mezzo alla strada, il ragazzo è dentro e sfida, lì, per qualche minuto, le macchine che passano e sente le frenate che arrivano; è lì a sfidare la morte. Giochi che appartengono al genere dell’“etica dell’incoscienza” ( “Q come Caos” è un libro che evidenzia alcune tendenze attuali della gioventù, ed individua nella sociopatia, uno stile di vita, una modalità di convivenza). Vi cito alcuni passi del libro che mi sembrano interessanti : “ nella società dello spettacolo cresce una serena indifferenza verso tutte le relazioni sociali e si affermano forze completamente nuove,è il momento della rivolta dei sociopatici pronti a gettarsi con assurdo ottimismo nella mischia delle relazioni interpersonali. Vivono fino in fondo il culto dell’ego con una mentalità senza scrupoli, ovvero il fattore Q. Sono scampati a tutte le regole sociali e si sono lasciati alle spalle gli ultimi residui della morale” . Nel romanzo “Blue Bell” lo scrittore americano descrive con precisione il sociopatico: è uno che segue solo i propri pensieri, procede per la sua strada, avverte solo il proprio dolore, afferma “non è forse questa la via giusta per sopravvivere in questo letamaio? Aspetta il tuo momento, abbassa la visiera, non lasciare che ti leggano nel cuore”. Questa indifferenza esageratamente egocentrica abbinata alla rinascita del concetto di predestinazione dà luogo al più potente esplosivo sociale del nostro tempo. Sembra che sempre di più nelle relazioni interpersonali ci sia una tendenza sociopatica che denota una forte immaturità affettiva, cioè, c’è una grande difficoltà a reggere, tollerare le frustrazioni e ad esprimere la nostra interiorità nella relazione. E’ quello che Goleman chiama l’analfabetismo emotivo e che Galimberti nel suo bel libro, “L’ospite inquietante”, lo assume a motivo di base di tante tragedie quotidiane e afferma che “Quel che si può avvertire in questo periodo caratterizzato da sovrabbondanza di stimoli esterni e carenza di comunicazione sono i primi segnali di quell’indifferenza emotiva , oggi sempre più diffusa, per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte i fatti a cui si assiste o a gesti che si compiono. E tutto ciò perchè? Perché manca un’educazione emotiva: dapprima in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi di casa in tasca e la televisione come baby-sitter, e poi a scuola quando, sotto gli occhi molto spesso appannati dei professori, ascoltano parole inincidenti, che fanno riferimento ad una cultura troppo lontana da ciò che la televisione ha loro offerto come base di reazione emozionale.” Negli incontri con insegnanti e genitori emerge sempre di più questa difficoltà, questa empasse che si manifesta nel non sapere, non conoscere, nel trovarsi impreparati di fronte ad un mondo interiore giovanile che emerge e a cui è difficile dare voce. “L’Altro” viene recepito e incontrato in un sorta di apatia morale, cioè in una mancanza di spinta ideale, politica (in senso lato) e di responsabilità nelle relazioni sociali, nella indifferenza e nella falsità; a questo si possono aggiungere spesso anche condotte antisociali piuttosto marcate o comportamenti compulsivi. Credo che sia importante guardare in faccia la realtà, le tendenze della società attuale e da questo cominciare a prenderne coscienza, a prenderne atto, a cercare di comprendere sempre più profondamente dove stiamo andando, di interrogarsi sull’atteggiamento comune che favorisce e che costruisce questo tipo di tendenza psicopatica. Credo sia importante cercare di capire il significato di questi segnali, di questo collasso della comunicazione sociale e interpersonale che, spesso, avvertiamo nelle relazioni, accompagnato da una evidente incapacità a stabilire relazioni significative e profonde. Il malessere giovanile è una sorta di protesta sociale, un allarme rispetto alle idee dominanti in cui prevale la solitudine individualistica e il vuoto di valori . Allora, mi sembra che questi segni siano il tentativo di rispondere al vuoto esistenziale che si trova nell’Altro sociale; un tentativo (fallito) di risposta ad un individualismo in cui siamo oggetti spinti a consumare in una prospettiva di godimento totale e immediato. Un godimento, spesso, autistico realizzato attraverso un’affabulazione fuori dalla portata del codice linguistico e della parola che ci unisce, un godimento senza parole, pragmatico e strumentale. L’individuo è immerso in un orizzonte strumentale e tecnico, in cui il massimo valore sono i costi/benefici, non solo nel settore aziendale ma anche nei servizi socio-sanitari, e si trova anche in famiglia, dove i dialoghi vertono sempre di più sulle entrate e le uscite, dove si crede sempre di più che la felicità è in riferimento al conto in banca. Ma ci meravigliamo di tutto questo? Come possiamo? La globalizzazione ( insieme a cose positive ) ha prodotto una nuova religione in cui è venerato un solo Dio, il Dio Denaro. Il motto è “averlo con ogni mezzo” , anche a costo di sfruttare e ingannare gli individui, violentare e derubare la natura, e quindi, addio ad empatia e solidarietà, valori ormai antiquati, retaggio di un mondo romantico ed idealista. “Le corporation al giorno d’oggi controllano le nostre vite: decidono cosa mangiamo, cosa vediamo,cosa indossiamo, dove lavoriamo e cosa facciamo. Siamo inesorabilmente circondati dalla loro cultura, dalla loro iconografia e dalla loro ideologia. E, alla stregua della chiesa e della monarchia in epoche passate, si ergono infallibili e onnipotenti, autocelebrandosi attraverso edifici imponenti e raffinati apparati simbolici. Le corporation esercitano un’ influenza sempre più estesa sulle decisioni delle autorità preposte alla loro vigilanza e controllano settori della società un tempo saldamente in mano pubblica”. E il controllo-persuasione arriva a modificare le nostre emozioni, perché i nostri vissuti possono essere educati dalla pervasività degli stimoli esterni. Questo pragmatismo della felicità sta riducendo la spinta ideale, la spinta di fede, sta togliendo sempre più valore ai valori, a quella valorizzazione dell’individuo, a quella biodiversità così tanto sbandierata come conquista di questa società. Senza un universo condiviso con l’altro, senza un riconoscimento da parte degli altri della mia esistenza, senza un ponte affettivo che collega il mio universo individuale all’universo sociale, in me, si forma un grande smarrimento, una sensazione di insignificanza del pensiero e dell’agire. Sempre di più ci sono individui che entrano in psicoterapia senza sintomi specifici (ossessioni, fobie, etc.) ma che affermano di sentire “ una grande insoddisfazione dentro”, di non sapere che senso dare a quello che fanno e affermare “ si, ho tutto ma a che cosa mi serve?”. Si avverte processi di demotivazione, disincanto, cinismo in cui la relazione sociale diventa un transito di una relazione “produttiva”. Se l’humus in si svolgono le nostre relazione è fatto di questo materiale è difficile realizzare quello che affermava Nietzsche, “diventa ciò che sei”. Senza una relazione, senza una idealità, senza una fede, che ci accomuna diventa una frase muta, una frase inquietante. Ci manca la cornice condivisa per ricordare il nostro vero sé, ci manca l’utopia. Utopia è una parola che è stata maltrattata molto in questi ultimi tempi, è stata negativizzata e relegata tra la roba vecchia. Chi si fa portatore di un’utopia è additato come nostalgico, come qualcuno che vuole portare in scena l’irrealizzabile, qualcuno che è fuori dalla realtà. Io credo che l’utopia (non come modello rigido codificato a priori) sia un sostegno antropologico a questa maledetta fatica del vivere quotidiano. Utopia è la spinta ideale verso il raggiungimento di mondi in cui regnano qualità dell’essere come solidarietà, gioia, coraggio, gratitudine, umiltà…Utopia è quella passione giovanile che si trova in tanti giovani, giovani che protestano, giovani che fanno volontariato, giovani che non si arrendono al non senso di questa vita e ci ricordano che possiamo sperare in un mondo migliore. Sergio Moravia (filosofo) afferma che “alla fine del secondo millennio ci troviamo deboli, confusi, legati a principi etico-culturali superati o più semplicemente errati, sottovalutiamo i sentimenti, ci vergogniamo delle lacrime, trascuriamo le relazioni umane, identifichiamo il benessere con il mero successo materiale, sempre meno sensibili alla sofferenza altrui, siamo sempre più impotenti dinanzi alla sofferenza che ci portiamo dentro noi stessi; non sappiamo neanche in cosa consista la felicità, tant’è vero che la confondiamo con l’euforia e la momentanea contentezza, o addirittura, non ne parliamo più. Come non parliamo più di progetto, utopia, emancipazione, speranza e fede”. Sono la speranza, la progettualità e l’idealità che, credo, possono farci sognare e creare una comunità solidale per avviare un percorso di lotta socio-politica in grado di risvegliare la coscienza e avviare percorsi di crescita umana, sociale e spirituale. Per noi psicologi è tempo di uscire dagli studi e dagli ambulatori per condividere emozioni e progettare sogni, come dice Emily Dickinson, in “ quel procedere incerto tra mare e cielo che chiamiamo esperienza” ; altrimenti ci ritroviamo con strumenti relazionali poveri e inadeguati, allevati da baby-sii.tter virtuali, in una realtà sempre più omologata e controllata dai sogni che ci sono dietro i prodotti