domenica 4 maggio 2014

Frida Kahlo: una grande donna che trasformò le sue sofferenze in arte - Una sinergia tra passione e forza d'animo.


Ma chi era veramente Frida Kahlo (1907-1954), la celebre pittrice messicana cui è dedicata in questi mesi un’importante mostra a Roma (Scuderie del Quirinale) e prossimamente anche a Genova? «Era una donna con disabilità che affrontò la sua difficile condizione opponendosi alla sorte avversa, riuscendo a trasformare l’immobilità in opportunità artistica e successivamente a trasformare la sofferenza in arte», come scrive Silvia Cutrera nel suo approfondito e appassionato ritratto.

Come spesso accade quando si analizzano i profili di persone famose con disabilità, si tende ad enfatizzare l’aspetto “eroico” del personaggio e a sottacerne il lato oscuro e difficile. Nel caso della pittrice messicana Frida Kahlo, la disabilità è stata dissimulata dalla sua capacità di sublimare il dolore personale in opere artistiche che sono apprezzate a prescindere dalla sua straordinaria biografia.

La sua vita, infatti, fu intensa e crudele, caratterizzata da tormenti e forti emozioni che le procurarono depressione, estraniamento, perdita. Ma la sua arte è testimonianza di un successo raggiunto che la salva dall’essere considerata sia una “vittima” che un’“icona con disabilità”, a dispetto di una cultura patriarcale, di un marito infedele e di un orribile incidente che avrebbero potuto alimentarne il mito di “eroina tragica”.

Era una donna con disabilità che fin dagli esordi affrontò la sua difficile condizione opponendosi alla sorte avversa, riuscendo a trasformare l’immobilità in opportunità artistica e successivamente a trasformare la sofferenza in arte. Il dolore rappresentato nelle sue tele non è mai tragico, caso mai sfrontato e vivido: Frida disegna l’intensità e la debolezza del genere umano. I numerosi autoritratti, inusuali e pieni di colore, ci fanno percepire quanto questo corpo di donna ferita, sia stato centrale nella sua arte e nella sua esistenza.

Frida era una donna con una forza speciale, probabilmente necessaria per dover affrontare sia i problemi di salute che quelli più strettamente personali. L’essersi sottoposta a trenta operazioni chirurgiche, alcune non indispensabili da un punto di vista medico, o l’accanimento con cui cercò di portare a termine ben tre gravidanze, senza riuscirvi, mostra la determinazione nel voler superare la barriera del suo corpo fragile, ritenuto un ostacolo per la sua forte personalità e l’enorme sete di vita.

Anche la relazione con il celebre pittore Diego Rivera, che le causò più pena che gioia, fa emergere l’intensa passionalità con la quale seppe affrontare le derive frustranti e trasformare questa ossessione amorosa in un legame quasi mistico. Nelle pagine del suo Diario, tenuto negli ultimi dieci anni di vita, Frida dichiara la sua passione senza riserve nei confronti del marito e solamente dopo l’amputazione della gamba destra, un anno prima di morire, appare l’ineluttabile sconforto che la fa sentire inadeguata e desiderosa di andarsene.
Frida Kahlo era nata nel 1907 a Coyoacán, all’epoca un sobborgo di Città del Messico. La madre aveva origini meticce, il padre, fotografo, era nato a Baden-Baden. I suoi genitori, infatti, ebrei ungheresi, erano emigrati in Germania.

Il rapporto con il padre era caratterizzato da grande ammirazione e affetto e quando ne dipinse il ritratto, aggiunse sulla parte inferiore di esso le parole: «Ho raffigurato mio padre, Wilhelm Kahlo, d’origine ungaro-tedesca, artista e fotografo di professione, di carattere generoso, intelligente, nobile e coraggioso, perché, nonostante abbia sofferto per sessant’anni di epilessia, non smise mai di lavorare e lottò contro Hitler, con ammirazione. Sua figlia Frida Kahlo».
A sei anni Frida si ammalò di poliomelite. La gamba e il piede destro divennero molto esili, provocandole un’andatura claudicante che le fece guadagnare il soprannome di “Frida gamba di legno” al quale reagì diventando molto spericolata, dimostrando di saper compiere vere e proprie acrobazie su biciclette e pattini, arrampicandosi su alberi e scavalcando muretti.

«A sei anni – scrive – ebbi la poliomielite. A partire da allora ricordo tutto molto chiaramente. Passai nove mesi a letto. Tutto cominciò con un dolore terribile alla gamba destra, dalla coscia in giù. Mi lavavano la gambina in una bacinella con acqua di noce e panni caldi. La gambina rimase molto magra. A sette anni portavo degli stivaletti. All’inizio pensai che le burle non mi avrebbero toccata, ma poi mi fecero male, e sempre più intensamente».

Fu in quel periodo che, per nascondere il suo lieve difetto fisico, iniziò a indossare pantaloni e poi lunghe gonne messicane. Nel 1922, dopo avere frequentato il liceo, Frida, volendo diventare medico, fu ammessa al migliore istituto superiore del Messico, la Escuela Nacional Preparatoria. Fu l’unica ragazza che fece parte del gruppo studentesco dei Los Cachuchas, così chiamati per i loro berretti e che si interessavano di letteratura e sostenevano le idee socialiste-nazionaliste di José Vasconcelos, da poco nominato ministro della Pubblica Istruzione.

L’azione politica di Vasconcelos, oltre a incentivare l’alfabetizzazione, favoriva il nascente movimento di rinnovamento culturale, il cui scopo era la parificazione sociale della popolazione di origine india e la sua integrazione culturale, nonché la riconquista di una cultura nazionale messicana indipendente. Molti artisti, che fino ad allora avevano giudicato degradante la diffusa imitazione di modelli stranieri, iniziarono a esigere un’arte messicana indipendente, lontana dall’accademismo, evidenziando nel loro lavoro le origini messicane e una rivalutazione dell’arte popolare.

In questo contesto trovava spazio l’arte dei murales, una forma artistica usata dai poeti messicani che parteciparono alla rivoluzione di inizio Novecento e che furono elemento fondamentale per la presa di coscienza del popolo e le conseguenti lotte sociali.
In seguito a quegli eventi, che resero evidente l’efficacia di quel mezzo di comunicazione, i murales vennero usati come un vero e proprio strumento di propaganda che permetteva di esprimere concetti e sensazioni senza l’ausilio di parole, che erano di difficile comprensione soprattutto per coloro i quali non sapevano leggere.

Uno dei maggiori esponenti di questa forma pittorica fu proprio il citato Diego Rivera, incontrato da Frida nel 1922, mentre preparava il suo primo murale nell’Anfiteatro Simon Bolivar della Escuela Nacional Preparatoria e che successivamente conobbe (1929) e sposò.
Il 17 settembre 1925 l’autobus con il quale Frida stava tornando a casa da scuola, si scontrò con un tram. Diverse persone morirono sul colpo e Frida rimase gravemente ferita. Frattura della terza e quarta vertebra lombare, tre fratture al bacino, undici fratture al piede destro, lussazione al gomito sinistro, la spalla destra slogata permanentemente, ferita penetrante all’addome prodotta da un corrimano che entrò nell’anca sinistra per uscire attraverso il sesso, compromessa la possibilità della maternità.

«Salii sull’autobus – racconta – con Alejandro Go’mez Arias. Io mi sedetti sul bordo, vicino al corrimano, e Alejandro accanto a me. Pochi attimi dopo l’autobus si scontrò con un tram della linea per Xochimilco. Il tram schiacciò l’autobus contro l’angolo della via. Fu un urto strano: non fu violento, ma sordo, e tutti ne uscirono malconci. Io più degli altri. Ricordo che accadde esattamente il 17 settembre del 1925. [...]
Eravamo saliti da poco sull’autobus quando ci fu lo scontro. Prima avevamo preso un altro autobus, solo che io avevo perso un ombrellino. Scendemmo a cercarlo e fu così che salimmo su quell’autobus che mi rovinò. L’incidente avvenne su un angolo, di fronte al mercato di San Juan, esattamente di fronte. Il tram procedeva con lentezza, ma il nostro autista era un ragazzo giovane, molto nervoso. Il tram, nella curva, trascinò l’autobus contro il muro. Io ero una ragazzina intelligente ma poco pratica, malgrado la libertà che avevo conquistato. Forse per questo non valutai bene la situazione né intuii il genere di ferite che avevo. […] Non è vero che ci si rende conto dell’urto, non è vero che si piange. Io non versai una lacrima. L’urto ci spinse in avanti e il corrimano mi trafisse come la spada trafigge un toro. Un uomo si accorse che avevo una tremenda emorragia, mi sollevò e mi depose su un tavolo da biliardo finché la Croce rossa non venne a prendermi. Persi la verginità, avevo un rene leso, non riuscivo a fare la pipì, e la cosa che più mi faceva male era la colonna vertebrale».
L’incidente la costrinse in ospedale per tre mesi e successivamente, a causa delle fratture alle vertebre lombari, a indossare per nove mesi diversi busti di gesso. Fu in questo periodo che, dovendo rimanere sdraiata, per ingannare il tempo, iniziò a dipingere. Si fece costruire una specie di cavalletto e un baldacchino sul quale fissò uno specchio in modo da potersi vedere e utilizzare la sua immagine come modello.

«Da molti anni – scrive – mio padre teneva in un angolo del suo piccolo studio fotografico una scatola di colori a olio, un paio di pennelli in un vecchio bicchiere e una tavolozza. […] Già da bambina mi sentivo attratta dalla scatola dei colori, senza saperne il perché. Nel periodo in cui dovetti rimanere a lungo a letto approfittai dell’occasione e chiesi a mio padre di darmela. Me la “prestò”, come un bambino a cui si porta via un giocattolo per darlo al fratello malato».
Trascorrendo molto tempo da sola, iniziò a dipingere gli autoritratti, sostenendo essere quello il soggetto meglio conosciuto. L’essere sfuggita alla morte le impose una rinascita. Frida fu costretta a confrontarsi con la sua immagine allo specchio, con il dolore per le sue gravi condizioni di salute, con l’angoscia e la disperazione, e decise con coraggio di ricominciare daccapo, di dipingere le cose come le vedeva, animate da un sentimento positivo e da un’esigenza di bellezza che riversava sui soggetti dei suoi dipinti, quali la natura, gli animali, i colori, i fiori e anche i suoi autoritratti.

Verso la fine del 1927, poi, Frida riprese una vita “normale”, ritrovò i suoi compagni che, nel frattempo, frequentavano l’università, svolgevano attività politica e partecipavano a incontri con Julio Antonio Mella, comunista cubano in esilio in Messico, compagno della fotografa Tina Modotti. Tramite lei, nei primi mesi del 1928, Frida conobbe Diego Rivera, determinante per la sua vita e per la sua produzione artistica. Lei gli mostrò le sue tele, lui la spronò a continuare a dipingere, intuendo che si trattava di una vera artista.
L’irruzione di Rivera nella sua vita la aiutò ad avere più fiducia in se stessa e a nutrire una sorta di orgoglio di esistere, rappresentato anche nello splendore di alcuni disegni e dipinti. In quell’anno Frida si iscrisse anche al Partito Comunista, sostenendo la lotta di classe armata del popolo messicano.
Frida e Diego si sposarono il 21 agosto del 1929, lui aveva 42 anni lei 22. Frida entrò in contatto con artisti e intellettuali che sostenevano un’arte messicana indipendente e raffigurò nei suoi autoritratti abiti, orecchini e collane che testimoniavano gli influssi culturali precolombiani e coloniali.

La situazione politica in Messico tra il 1928 e il 1934, con il nuovo governo, fu caratterizzata dalla repressione nei confronti dei dissidenti politici. Il Partito Comunista Messicano venne dichiarato fuorilegge e numerosi comunisti incarcerati. Molti si trasferirono negli Stati Uniti e tra questi, nel novembre del 1930, anche Frida Kahlo e Diego Rivera. Rimasero in America quattro anni nei quali per tre volte Frida non riuscì a portare a termine le gravidanze. Il dolore per la perdita del bambino è rappresentato in un dipinto a olio (Ospedale Henry Ford o Il letto volante) in cui è condensata la sua situazione di solitudine e abbandono.

Ospedale Henry Ford o Il letto volante (1932). Frida si rappresenta distesa nuda in una pozza di sangue, una grossa lacrima bianca scende dal viso, la sua mano tiene un filo-cordone rosso sangue che si aprirà alla rappresentazione di sei strane figure con al centro un feto, il bambino non nato.
«La mia pittura – scrive – porta dentro il messaggio del dolore. Credo che, quanto meno, a qualcuno interessi […]. La pittura mi riempì la vita. Persi tre figli e un’altra serie di cose che avrebbero dato un senso alla mia vita orribile. Tutto questo fu sostituito dalla pittura. Io credo che il lavoro sia la cosa migliore».
Ricominciare a lavorare non fu semplice. Nel 1935 il rapporto tra Frida e Diego era molto difficile. Diego, che aveva avuto diverse avventure con altre donne, aveva iniziato una relazione con la cognata Cristina Kahlo, che era stata una sua modella.
Profondamente ferita, Frida lasciò la casa dove abitava e dopo alcuni mesi andò per un periodo, con due amiche, a New York.
Uno dei dipinti di quell’anno, "Qualche colpo di pugnale", raffigura l’omicidio di una donna per gelosia, realizzato prendendo spunto da un fatto di cronaca nel quale l’assassino si era difeso davanti al giudice dicendo: «Ma era solo qualche colpo di pugnale!».
L’opera colpisce per la rappresentazione oltremodo sanguinosa della brutale violenza maschile e le ferite inflitte sono, probabilmente, riconducibili alla sofferenza interiore di Frida.

Alla fine dell’anno, la relazione tra Diego e Cristina Kahlo si concluse, Frida tornò a casa, anche se il marito non rinunciò ad altre avventure extraconiugali, ma da questo momento anche lei cominciò ad avere rapporti con altri uomini tra cui, uno dei più famosi, fu quello con Lev Trotzkij nel 1937. Nei suoi ultimi anni di vita, poi, ebbe alcune relazioni anche con donne.
Nell’ottobre del 1938 ritornò negli Stati Uniti per allestire la sua prima mostra presso la Galleria di Julien Levy a New York. Fu un successo con vasta eco su giornali e riviste e metà dei quadri furono venduti. In quella occasione Diego Rivera aveva inviato a un critico d’arte il seguente biglietto: «Gliela raccomando, non come marito, ma come un ammiratore entusiasta della sua opera, acida e tenera, dura come l’acciaio e delicata e fine come l’ala di una farfalla, adorabile come un bel sorriso e profonda e crudele come l’amarezza della vita».

Nel 1939 è poi la volta di Parigi, dove André Breton volle organizzare una mostra dedicata all’arte messicana per la quale la pittrice e la sua opera ottennero commenti positivi sulla stampa. La minaccia dello scoppio della guerra fece però fallire, dal punto di vista finanziario, l’esposizione.

Nella capitale francese Frida conobbe e frequento Kandinskij, Duchamp, Picasso e molti altri artisti.
Il 1939 fu anche l’anno del divorzio, voluto da Diego Rivera. Per Frida la separazione fu dolorosa, per disperazione si diede all’alcol e per combattere la solitudine lavorò molto intensamente.

In quel periodo ripresero anche i dolori alla colonna vertebrale e si presentò una micosi alla mano destra. Nel settembre del 1940, Frida si recò a San Francisco, per farsi curare dall’amico medico, il dottor Leo Eloesser. Anche Rivera si trovava a San Francisco, avendo ricevuto l’incarico di dipingere un affresco murale per la Golden Gate International Exposition e in tale occasione le propose di risposarlo. Lei fu d’accordo, ma ad alcune condizioni: non avrebbe più accettato denaro da lui e non avrebbero avuto più rapporti sessuali.

L’8 dicembre del 1940, giorno del compleanno di Rivera, venne dunque celebrato a San Francisco il secondo matrimonio.
Nel 1941, poi, Frida e Diego tornarono in Messico. Il loro rapporto era cambiato, lei era diventata indipendente dal punto di vista economico e sessuale, e una famosa pittrice. Per circa un decennio la sua vita fu tranquilla e ricca di successo artistico e accademico. Fu chiamata a insegnare in una prestigiosa accademia d’arte per la pittura e la scultura, a scrivere per alcune riviste, ricevette molti premi, partecipò a varie mostre collettive. Ma tornarono i problemi di salute.

La colonna rotta
Nel 1944, infatti, per i continui dolori alla schiena e al piede destro, dovette stare a riposo assoluto e indossare un busto d’acciaio. Nell’autoritratto intitolato "La colonna rotta", la sua spina dorsale è rappresentata come una colonna ionica rotta in diversi punti, il busto lacerato, il volto rigato dalle lacrime, decine di chiodi conficcati sul viso e sul corpo, il paesaggio sullo sfondo desolato. Nonostante tutto ciò, si tratta di un’opera che trasmette forza e fa percepire uno “spirito guerriero”.
Anche nel 1946, dopo avere subìto da uno specialista a New York un’operazione per rinforzare la colonna vertebrale, dipinse l’autoritratto "Albero della speranza sii solido" per l’ingegner Morillo Safa, suo mecenate e gli raccontò di avere «quasi terminato il suo primo quadro; naturalmente non si tratta d’altro che del risultato di questa maledetta operazione: da una parte sono seduta – sull’orlo di un precipizio – con in mano il corsetto di pelle; dietro sono sdraiata su una lettiga, con il viso rivolto verso il paesaggio, con una parte di schiena scoperta, su cui si possono vedere le cicatrici che questi figli di puttana di chirurghi mi hanno fatto».
In questo quadro, nonostante il corpo sia raffigurato scoperto, indebolito e ferito, si ritrovano sentimenti di speranza e coraggio, confermati nella figura di Frida che regge in mano uno stendardo con il motto Albero della speranza sii solido, così come il titolo dell’opera.
Ma le aspettative sull’esito dell’operazione furono deluse. Al ritorno in Messico, infatti, i dolori ricominciarono e arrivò una profonda depressione. Nel 1950 Frida venne ricoverata per nove mesi in ospedale e operata altre sette volte alla colonna vertebrale. Per dipingere fece montare sul letto un cavalletto speciale che le permetteva di lavorare pur rimanendo sdraiata. Realizzò così l’Autoritratto con il ritratto del dott. Farill.
«Il dott. Farill – ne scrive – mi ha salvata, mi ha ridato la gioia di vivere. Sono ancora seduta su una sedia a rotelle e non so se potrò presto riprendere a camminare. Devo portare un busto di gesso, una pena terribile, ma mi aiuta a reggere meglio la spina dorsale. Non ho dolori, ma sono sempre stanchissima […] e, ma questo è naturale, spesso sono disperata, in un modo indescrivibile. E tuttavia ho ancora voglia di vivere. Ho già cominciato a dipingere, con tutto il mio affetto, il piccolo quadro che voglio regalare al dottor Farill».

Frida faceva fatica a camminare, spesso si muoveva in carrozzina e stava molto tempo in casa. Fatta eccezione per Rivera, frequentava solo donne. Dipingeva a letto e, quando poteva, nello studio o in giardino. Negli ultimi anni dipinse soprattutto nature morte.

Dal 1951, a causa dei dolori, ricorreva all’uso di farmaci antidolorifici che resero i suoi lavori meno precisi e accurati in un periodo in cui sentiva più forte il desiderio di esprimere nei suoi dipinti la sua ideologia politica, visto che dal ’48 si era nuovamente iscritta al Partito Comunista.
«Sono molto preoccupata – annota – per quanto riguarda la mia pittura, soprattutto perché vorrei farla diventare qualcosa di utile. Finora, infatti, sono riuscita solo a esprimere me stessa, ma ciò purtroppo non serve al partito. Devo cercare con tutte le mie forze di fare in modo che quel poco di positivo che le mie condizioni fisiche mi permettono ancora di fare, serva anche alla rivoluzione, l’unico vero motivo di vivere».

Nel dipinto Il marxismo guarirà gli infermi, Frida immagina Marx come il salvatore che libererà il mondo dal dolore e dalla sofferenza, i malati miracolosamente guariti. Un’utopia realizzabile attraverso la fede politica, propagandata con la sua opera artistica.
Nella primavera del 1953 fu allestita la prima mostra personale in Messico e fu un enorme successo. La sera dell’inaugurazione Frida stava molto male, ma non voleva mancare al vernissage. Si fece quindi trasportare in ambulanza e portare il letto in galleria, partecipò alla festa bevendo e cantando insieme al pubblico.
La malattia adombrò questo momento felice, i dolori alla gamba destra non erano più sostenibili. Nel suo Diario vi è un disegno premonitore, come per esorcizzare la sua più grande paura, che raffigura cioè due piedi staccati dal corpo, su un piedistallo, statuari, mentre da un’unica gamba emergono rami spinosi, senza foglie. In epigrafe Piedi, perche li voglio se ho ali per volare.
Nell’agosto di quell’anno i medici decisero di amputarle la gamba fino al ginocchio. «Sei mesi fa – scrive – mi hanno amputato la gamba, mi sembra un secolo di torture e qualche volta sono stata sul punto di perdere la ragione. Ho sempre il desiderio di uccidermi. Solo Diego mi trattiene dal farlo, perché mi sono messa in testa che gli potrei mancare. Me l’ha detto lui e io gli credo. Ma mai nella mia vita ho sofferto tanto».
Frida Kahlo morì la notte del 13 luglio 1954, a 47 anni, a causa di un’embolia polmonare. La sera prima aveva dato a Diego Rivera il regalo per le nozze d’argento che avrebbero festeggiato il 21 agosto successivo.
Se soltanto avessi vicino a me la sua carezza, come l’aria accarezza la terra, la realtà della sua persona, mi farebbe più felice, mi allontanerebbe dalla sensazione che mi riempie di grigio. Nulla dentro di me sarebbe più così profondo, così definitivo. Ma come gli spiego il mio enorme bisogno di tenerezza! La mia solitudine di anni. La mia struttura non conforme per disarmonia, per inadeguatezza. Io credo che sia meglio andare, andare e non scappare. Che tutto passi in un momento. Magari.
TRATTO DA:
http://www.controlacrisi.org/notizia/Conoscenza/2014/4/18/40349-storia-di-frida-kahlo-che-trasformo-la-sofferenza-in-arte/

1 commento:

  1. Frida è un grande esempio di come l'enorme energia mobilitata dalla sofferenza possa essere utilmente canalizzata a servizio della passione, passione per la pittura nel suo caso. La pittura per resistere, per "ESISTERE", per tracciare potentemente il proprio segno. Il "bisogno di passione" che si fa arte e l'arte che, dando significato, accresce la resilienza. Grazie di questo bel contributo!

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.